Bio

sabato 21 agosto 2010

The bad stuff


Chi di noi non conosce a memoria quella frase dell’intramontabile Pretty Woman?
Strano, mi capita sotto mano in inglese, probabilmente per la prima volta, e di questa battuta prima d'ora ho solo un vago ricordo.
«The bad stuff is easier to believe. You ever notice that?». In italiano dovrebbe suonare tipo: «Le cose cattive [che vengono dette sul nostro conto] sono più facili da credere. Ci hai mai fatto caso?».
Non so se sia esattamente una battuta da commedia rosa. Probabilmente non è neppure una battuta di spiccata originalità o di indiscutibile spessore. E soprattutto è ben lungi dal valere per tutti. Eppure – complice la dolcezza dell’atmosfera, complice l’intensità di quella giovane Julia Roberts che mai mi è parsa così graziosa – è questo il frammento del film che più mi resta in mente, e che ascolterei da qui a domani.
Casi della vita, c’è uno spunto affine che mi è capitato a tiro ultimamente. Un volantino (o qualcosa di simile) su un seminario (o qualcosa di simile) sull’autostima. Viene tirata in ballo la metafora di un “termometro”, che sappia valutarne le condizioni come se fosse davvero il calore del corpo: “ipotermia” o “febbre da cavallo”, sono i poli simbolici di questo esame, a seconda che il soggetto abbia un concetto di sé catastrofico o quantomeno incline alla iper-valutazione.
Sappiamo che, a Hollywood, la vulnerabilità ti rende abbastanza massacrabile da diventare una prostituta, e che la fortuna ti spingerà immancabilmente tra le braccia di Richard Gere: è un’icona poco verosimile ma facilissima alla venerazione, se ben espressa. L’icona di un genere umano troppo “emotivo” per sgomitare nella selva, ma provvisto delle doti necessarie a salvare il bell’attempato dalla sua anaffettività.
Ma, fuori da Hollywood… che succede? Come si organizzano, gli “ipotermici” dell’autostima?
Questa è l’era delle psicoterapie e degli sportelli online. Io sono incuriosita da un link in particolare:
www.nienteansia.it/test/test-autostima.html . Qui possiamo sottoporci tutti a un test che definirà in percentuale la nostra autostima: ergo, probabilmente, la nostra permeabilità alle secchiate di “bad stuff” che il mondo non ha nessuna intenzione di risparmiarci. Poi si passa a questo: www.psicologi-italia.it/autostima.htm , un vademecum che ci spiega “da dove nasce”, l’autostima, “perché è importante”, “cosa bisogna fare per migliorarla” eccetera.
La serie di siti sull’argomento è già straripante nella nostra lingua; ma provate a digitare su Google l’espressione “self esteem” e il carico lieviterà. Nella ricerca correlata, non mancheranno in grassetto i riferimenti alla chirurgia plastica quale antidoto gettonatissimo alla “bassa autostima nel mondo di oggi” (recito testualmente).
Vivere nel 2010 significa pure questo, e gli internauti provetti lo sanno meglio di me.

Rivedo sempre con piacere la commedia rosa che potrebbe aver migliorato (e di parecchie unità) l’autostima della Roberts e di Richard Gere, e non oso apertamente questa chiave di lettura: “La storia di un uomo e una donna che insieme, da un’occasione insospettabile, imparano a volere più bene a se stessi”. Suona malissimo e lo capisco. Pretty Woman è sempre andato forte perché ha saputo confezionare la manfrina in un taglio frizzante e delicato che forse è rimasto inimitabile nel suo genere.
Ma più ci penso più mi viene in mente che in effetti “le cose cattive sono quelle a cui si crede più facilmente” (o perlomeno, a giudicare dal giretto nel web, è un dato diffuso); le cose migliori sono quelle più ostiche da far digerire alla nostra fiducia.

Prendo fiato e tiro le somme: se credere in noi stessi è difficile quanto credere alle cose migliori… beh, a occhio e croce, posso illudermi che sia un buon segno.

( Editoriale pubblicato da www.inscenamag.it)

lunedì 16 agosto 2010

La iena a tutto rock!


(da Inscena magazine, novembre 2009).


Umorismo, competenza, cromosomi musicali DOC.
La trasversalità di Elena Di Cioccio non ha bisogno di presentazioni; e se a Scorie (il mercoledì di RaiDue in seconda serata), viene introdotta come “la promessa della tv italiana”, c’è solo da augurarsi che la tv e lo spettacolo comincino ad assomigliarle un po’ di più.
La conversazione esclusiva con Elena non può che essere molto eclettica, cercando il più possibile di ammiccare alla sua innata e addestratissima ironia.


Ti occupi di svariate espressioni di satira e ti trovi in particolare nel dopo-X-Factor con Scorie. Conoscevi già bene X-Factor o hai preso a seguirlo quest’anno?
«X-Factor lo seguo dalla prima puntata. Da (ex) operatore del settore musicale, come tutti, sono stata interessata a questo programma dall’inizio. Tutti gli addetti ai lavori conoscevano già il format inglese. A me piace molto, devo dire che mi appassiona: l’edizione dell’anno scorso in particolare c’erano dei caratteri pazzeschi».
Cosa rappresenta un format come X-Factor nel panorama discografico, secondo te?
«Allora qui possiamo aprire il famoso capitolo sulla discografia che inizia per me da prima che facessi spettacolo (gli inizi del 2000). Io prima lavoravo per un’azienda che organizzava spettacoli dal vivo. Il mio babbo è musicista (si tratta di Franz Di Cioccio, batterista del gruppo musicale PFM). La “musica dal vivo” nella quale lavoravo significava concerti, grandi festival eccetera, ed io ho lavorato con moltissimi artisti nazionali e internazionali (Michael Jackson incluso). Così facendo, anche semplicemente come assistente alla produzione, rimani sempre vicina a quei meccanismi che gestiscono la musica. Ti dico che la musica dal vivo funziona se c’è una progettualità a livello discografico, anche… (E viceversa). La discografia negli ultimi anni ha vissuto momenti di forte crisi (nuove tecnologie, mancanza di preparazione, rinnovamento delle mode… e spesso non c’è il “tempo fisico” per adeguarsi…). Sicuramente un programma come X-Factor dà la possibilità ai ragazzi di lavorare, di farsi vedere, di farsi conoscere, di scontrarsi immediatamente anche con la parte peggiore dell’essere musicista. In Italia mancano le occasioni di suonare nei locali, fosse anche per prendersi le pomodorate in faccia. Lo so bene perché cantai col mio gruppettino amatoriale, una decina di anni fa… E ancora c’era un po’ di spazio per suonare (noi facevamo solo cover dei Kiss) e allora qualche possibilità c’era: ma per chi proponesse “roba propria”… Zero spazio. A X-Factor è tutto molto edulcorato dal fatto che si cantano canzoni conosciute, quindi al pubblico piace. Ma alcuni cantanti eccezionali hanno intanto la possibilità di farsi notare. »
Arrivi a Scorie e accogli l’eredità di una verve comica come quella di Nicola Savino. Che significa?
« Io e Nicola siamo molto diversi. Ci conosciamo e ci stimiamo molto. Non fosse altro che perché lui è uomo e io sono donna (ride fragorosamente, nda). Mi ha lasciato una bella eredità. Non so se ti ricordi com’era partito cinque anni fa: era un loft con due casse… (ride, nda). Alcuni progetti nascono con situazioni tecnico-logistiche e amministrative all’arrembaggio dei pirati! Bisogna investire. La transgenia non funziona in tv. Nicola ha fatto crescere Scorie assieme a un personaggio enorme come DJ Angelo, che è il nuovo Nino Frassica. E DJ Angelo ha uno stile tutto suo, un personaggio finito, ben definito con una sua chiave e un suo modo. Per cui raccogliere la loro eredità è stato bello. All’inizio ero un po’ preoccupata… Poi è ovvio che ho dovuto cambiare delle cose. Per esempio Nicola aveva una chiave sportiva molto presente: se perdeva l’Inter rischiava di non andare in onda! In Scorie si può fare tanto. Io sono un po’ più “salata”. Del resto è ovvio che i primi tempi servano delle puntate di assestamento, ma sono molto contenta».
Nella tua rassegna stampa personale, c’è un’osservazione tra le altre che condivido moltissimo. La tua capacità di “maneggiare” il sesso senza scivolare nella volgarità. Complicato, soprattutto per una donna…
«Ciurlano un po’ tutte nel manico del sesso. Ma sono poche quelle riescono a giocarci con serenità. Ti faccio qualche nome. La Blasi, tranquillamente, la Brescia, la Ventura… Per fare questo, devi sentirti abbastanza sicura di quello che stai facendo. Spesso si usano l’espediente del sesso per sconvolgere, per fare “di più”. Secondo me non serve. Io ho un rapporto molto sereno con la sessualità e non ho certo bisogno di raccontarla, di scadere in bassezze. Poi il mio babbo mi ha sempre detto: “Meglio intelligente che bella e scema! Devono innamorarsi del tuo cervello!” (ride, nda)».
In tutto ciò, di recente sei stata impegnata in un’esperienza al cinema…
«È un progetto indipendente di Guido Pappadà, che ha lavorato tra gli altri con Tornatore. Il film è girato con grandi attori come David Coco, Luca Ward, Paolo Mazzarelli e Massimo Andrei. Mi “tappetizzo” mentre ti faccio questi nomi. Luca per me era un piccolo mito: feci la scuola per doppiatori e la prima volta che lo ebbi di fianco, col microfonino, mi si chiuse l’epiglottide per l’emozione… (ride, nda). Comunque, questo film si chiama Nautica e il regista mi ha chiamata dicendo che serviva questa ragazza, il personaggio di “Laura”. Ho accettato subito. È stato davvero divertente e bello. Il problema è che non so come e quando sarà distribuito perché i progetti indipendenti sono così…»
Hai un blog. Blogsfere, community… Che ne pensi?
«Ho un mentore nella comunicazione web 2.0: Marco Camisani Canzolari, che mi ha istruito a utilizzare la rete come strumento di lavoro ma anche di divertimento e oggi gestisco un blog in totale solitudine e autonomia. Le community mi creano un po’ di conflitto. Mi piace l’idea che nel web si possa “condividere”, ma non mi piace che si condivida il lato un po’ superficiale della vita. Una situazione tipo Facebook, per esempio, ti fa perdere il controllo della tua identità. Pubblichi una tua immagine e quella rimane appiccicata al computer per sempre. Mi sono trovata una foto mia pubblicata mentre semplicemente ero in un locale coi miei amici… Niente di che, ma mi ha disturbato. Poi, mi iscrissi a Facebook per trovare i miei amici! Ed è stata “la morte”: se non rispondi a tutti, ti insultano anche… »

Molta della tua popolarità ti è discesa da Le Iene. Che genere di apprendistato è, un programma del genere?
«Bello!!! La mia casetta! Gli amici!... Il mio capo, Davide Parenti. Bel posto, bella gente. Come in tutti i posti ci si azzuffa “ogni tre per due”… Ma Davide Parenti ti permette di fare davvero quello che vuoi. Non so… Hai un’idea? Ti piace? Intanto realizzala: se poi hai fatto una cosa che fa schifo, al limite non va in onda. I servizi delle Iene hanno un tasso di mortalità del 30% circa, per intenderci…»
Cioè… Scarse garanzie per una fatica non indifferente…
«Una fatica pazzesca! Sei lo “zainetto” appoggiato sulla scrivania, stai lì, osservi, aspetti… Ma, se dopo un trimestre hai “tenuto botta”, allora è evidente che qualche qualità ce l’hai. Sai, capita di avere un’idea che ti sembra geniale. Vai là, gliela comunichi con tutto l’entusiasmo… e loro ti guardano come se… avessi fatto una scoreggia, più o meno! E ti dicono: “L’abbiamo fatta tre anni fa”, o magari :“Naaa, questa non può funzionare”. E a furia di sbattere, impari. Ma molti servizi, con annessi appostamenti di due-tre giorni, finisce che non puoi nemmeno chiuderli perché magari il “tizio” che aspettavi al varco s’è trasferito in Messico…"
Esperienza che può averti dato tanti strumenti per la tua satira, immagino. Ma tu da bambina volevi fare addirittura la rockstar. Che hanno in comune la satira e il rock’nroll?
«La follia. C’è tanta di quella satira e di quella follia nel rock’n’roll… Se cominciassi a farti degli esempi, ti sveglieresti domani mattina e io starei ancora parlando! Prendi Jesus Christ Super Star, per esempio… Opera Rock che inizia col preludio che ti fa intuire le tematiche portanti, che poi si svilupperanno nel corso dell’esecuzione: è talmente perfetta che non si può descrivere. E tutto questo è collegato alla rappresentazione di Gesù e delle forme d’ironia tipiche degli anni’70 (Erode gay, per esempio…)».
In tutto questo rock… Quale sarà mai il gruppo che più hai amato dall'inizio?
«Non farmi questa domanda! Sono troppi!»
Allora hai un margine di tre nomi…
«Sei cattiva! (ride)… Certamente Aerosmith, Iron Maiden (che seguo da quando avevi 16 anni… e penso che li seguirò finché non schiattano!)… Poi, non saprei… Direi David Bowie. Conservo un’intervista che fece il mio babbo a Tv Sorrisi e Canzoni, sai, avevo otto anni. Mi mancava pure un dente in quella foto. Intervistarono tutte le figlie e io dichiarai che ascoltavo già David Bowie: poco da dire…»
La fortuna di un eccellente Dna…
«Eh, c’è a chi capita Nilla Pizzi… Io mi sono beccata David Bowie… (ride, nda)»
Ultima curiosità. Secondo un’intervista a te pubblicata da La Stampa, Festivalbar lo avresti fatto: Sanremo no. Come mai?
«Me l’hanno già chiesto. Sai, alcuni giornalisti pubblicano l’opposto di quello che uno dice. Mio babbo è andato a Sanremo… Io lo seguo da sempre! Sfidami a Sarabanda coi pezzi di Sanremo, se vuoi. All’epoca di questo articolo chiamai la Vicky che stava facendo Sanremo (Victoria Cabello, anno 2006, nda) e le dissi che niente del genere mi era uscito di bocca. Se mi avessero proposto quello che stava facendo lei avrei detto semplicemente: “Magari!”. Ho tanta tanta stima di lei e almeno (solo) con lei volevo chiarire. Non voglio fare come De Andrè che le interviste a un certo punto le scriveva soltanto… Ma ci rendiamo conto che spesso c’è da difendersi…».

Non, je regrette rien.



Nel 1989 (esattamente vent’anni fa), Nuovo Cinema Paradiso vinceva il premio Oscar come miglior film straniero.
Baarìa, l’ultimo lungometraggio dello stesso Tornatore, è oggi in tutte le sale cinematografiche con la nomination allo stesso premio di allora.
Parte della magia di quel film, quello “storico” film di Tornatore era lei, la giovanissima Agnese Nano. L’abbiamo incontrata per un ritratto esclusivo e scanzonato che partisse proprio da quegli esordi.


Era Elena, il grande amore di “Totò”. Il primo amore cinematografico di Giuseppe Tornatore.
E anche in Baaría, in fondo, è facile ritrovare gli echi di quello stesso etereo imprinting tra i protagonisti.
Ebbene, l’interprete di una icona romantica rimasta famosa in tutto il mondo era lei, Agnese Nano, che pochi anni dopo il grande successo di Tornatore si dedicò ad esperienze televisive, ancora cinematografiche, e teatrali. Pochi anni fa l’abbiamo vista al fianco di Carlo Verdone, nei panni (un po’scomodi ma molto ben portati) di moglie e madre, ne Il mio miglior nemico.
La trovo fasciata dal jeans praticamente da capo a piedi; i capelli castani raccolti; non un filo di trucco. Gli occhi nocciola, che mi paiono striati di pagliuzze verdi e dorate. Io la ricordavo con gli occhi azzurrissimi, Elena: lei mi spiega che “in effetti il personaggio era stato scritto con gli occhi blu”, e blu diventarono le sue iridi sul set in Sicilia.
La prima cosa che le chiedo, gliela chiedo senza remore. Un pronto tuffo nel passato.

Come nacquero i panni di Elena addosso a te?
«Andiamo lontano lontano lontano nel tempo! Io avevo 21 anni e in realtà pensavo che la mia vita fosse completamente altra: studiavo medicina veterinaria. Avevo già fatto un film, ma questo mi sembrava un mestiere “non serio”, assimilabile perlopiù al gioco… Ero a Perugia all’università, il mio agente mi chiamò dicendomi che aveva letto questa sceneggiatura bellissima e mi disse: “Vieni a Roma, ti vogliono incontrare”».
Dov’è che ti avevano apprezzata?
«Io avevo fatto il primo film di Daniele Luchetti (Domani accadrà). Quindi avevano visto questo film che era stato selezionato per la settimana della critica a Cannes. Per Nuovo Cinema Paradiso cercavano una ragazza che assomigliasse a Valeria Ciangottini (ce l’hai presente? La bimba de La dolce vita…) perché doveva essere lei a fare Elena da grande.
Mi chiamarono la prima volta per la mia somiglianza con Valeria. Al secondo incontro ci convocarono per una giornata intera di provini a Cinecittà. Dovevamo recitare circa… tre scene (ogni coppia doveva provare tre scene). Sì, il provino più lungo della mia vita».
Con Tornatore. Com’era il giovane Tornatore?

«Meraviglioso. Perché è un regista che sa esattamente quello che vuole: spesso i registi, quando non sanno quello che vogliono, ti dirigono in maniera un po’ violenta e invasiva. Lui aveva già una dolcezza incredibile. Già dal primo film (Il camorrista) si capiva bene che era un grande regista: aveva un dono innato, la capacità di “costruire un mondo” attraverso i suoi occhi.
In questo set in Sicilia si aveva l’impressione, almeno a momenti, di fare una cosa bella e grande. Ma una volta finito, il percorso del film fu un po’ strano…
Il fatto di vedere che la critica, la stessa critica, gli stessi identici nomi, possono assumere atteggiamenti così diversi nel corso di poco tempo, mi insegnò subito molto. Ero piccola: questa esperienza mi ha dato immediatamente una distanza da quello che succede attorno a questo lavoro…
Capii già allora che chiunque può entrare in sala e giudicare: a prescindere da chi sia abilitato a farlo. È stato surreale sentirne dire che era una schifezza e poi un capolavoro (ripeto: dalle stesse persone). Sono diventata immediatamente poco dipendente dal giudizio: stroncatura o esaltazione. In questo mestiere, da un momento all’altro, tutto cambia. Alla fine di ogni lavoro torni a casa, fai i conti con te stesso e ricominci daccapo ».
Per te il film “vero” resta la versione integrale o la più fortunata “tagliata”?
«Per l’attore il film è esattamente quello che si è girato. Ciò che esce in sala è reinterpretato attraverso il montaggio.
La versione integrale del film in fondo dava delle spiegazioni: c’è il perché i protagonisti si perdono. Ma forse questo “perché” non è così necessario… Può prendere il volto di Philippe Noiret che non consegna quel messaggio, o il giovane Salvatore che copre il messaggio con la mano inavvertitamente… È la vita che è fatta così… »
Tutt’altra stagione rispetto agli inizi, sarà stata quella televisiva. Era l’epoca dei primi esperimenti di fiction italiane, i primi anni ‘90…
«Io ho saltato completamente la generazione dei registi della mia generazione. Ho lavorato con registi di stagioni precedenti e successive, ma non della mia. Credo che il successo straordinario di Tornatore un po’ io lo abbia subito. Nessuna lamentela, in questo. Ma dopo Nuovo Cinema Paradiso ho sentito il peso di questo successo. Forse l’invidia, che è del tutto umana, dei registi della stessa generazione di Tornatore.
Il mio percorso è stato di fatto particolare: prima Cannes, poi un film che vinse l’Oscar…
All’inizio, quando mi chiesero di interpretare “Edera” in quella serie televisiva, avevo detto di no. Doveva interpretarlo un’attrice americana che poi non lo fece più. Io ero incuriosita da questo esperimento… E poi avevo voglia di lavorare con quel regista, Fabrizio Costa. Era tutto così diverso… Telecamere giganti con le manopole, il regista lontanissimo dal set, circondato da monitor. Venendo da un cinema stracurato, mi sono vista un po’ sola con me stessa, senza il regista che ti curava immagine per immagine. Era molto più teatrale, come esperienza: finché non finiva questa “cassettona” di venti minuti: un’eternità! Mi è servito tanto.
Tra un ciak e l’altro avevo i libri di veterinaria e studiavo. Io sono cresciuta in una casa senza un televisore piena di libri, e piena di fratelli…
L’istruzione era fondamentale. Eppure non sono stata disapprovata per la mia scelta: l’unicità di ciascun figlio è sempre stata rispettata».
Neanche un po’ di preoccupazione?
«Certo che sì… Un po’ di preoccupazione è del tutto normale. Al di là di quello che immagina la gente, l’attore non sta assolutamente in una torre dorata circondata da lussi. Si parla tanto di precari, e l’attore è il precario per eccellenza. Niente copertura nel caso d’infortunio. Pochissimi arrivano effettivamente alla pensione. Poi, arrivati a 40-45 anni, è complicato trovare un lavoro, per le donne soprattutto. È ovvio che questa mancanza di stabilità preoccupi un po’ la famiglia.
Io in realtà ne ho fatta poca di televisione, ma quella che ho fatto ha avuto un seguito pazzesco».
Appunto. Che significa la popolarità televisiva che arriva così di colpo? (Fenomeno attualissimo, tra l’altro, espanso da una serie di format nuovi che hanno poco a che vedere col tuo lavoro…).
«Ci sono state due ondate di incredibile popolarità, per me. La prima volta mi ha fatto sentire “invasa”… e spaventata, anche. Praticamente fuggivo, fuggivo da un vagone di gente sulla metro pronta all’assalto, per intenderci. Poi ho capito che più scappi più ti si corre dietro. Se resti fermo puoi anche parlare con l’altro, senza farti invadere.
Ho scoperto la bellezza di questo mestiere: il mestiere di un artigiano, la creatività che gli è richiesta. È fondamentale parlare col pubblico per capire cosa è arrivato. Dopo dieci anni da “Edera”… ben dieci anni, con “Incantesimo”, è arrivata la seconda stagione. Poi, io sono molto divertita anche dalle critiche. Soprattutto quelle della gente comune. “Incantesimo” era seguitissimo anche dagli uomini! (ride, nda). Comunque, alla fine ho abbandonato anche questo progetto perché non mi diverte stare ferma su un personaggio soltanto».
Nel 2006, Il mio miglior nemico di Carlo Verdone.
«Quell’anno ero impegnata a teatro con Gabriele Lavia (Chi ha paura di Virginia Woolf) e non ho vissuto molto la stagione della proiezione cinematografica. Ma è stato divertentissimo: il primo personaggio davvero comico che ho interpretato… »
Le prime parolacce sullo schermo, anche?
«No, quelle (ma molto più pesanti) le avevo già dette a Ricky Tognazzi nei panni di un’altra moglie indemoniata».
Secondo te che momento è, questo, per il cinema italiano?

«Sono stata ad Annecy (a un festival di cinema italiano). Il cinema italiano è così: pochi soldi, tantissimi problemi, ma quando il film è un buon film è nettamente superiore a qualsiasi film europeo. In Italia non c’è amore per la cultura. Non stiamo vivendo un buon momento: chi dovrebbe far crescere la cultura sembra non capire. Penso che forse sia molto più facile gestire persone che non sanno: lo spirito critico è sempre più addormentato ed è un problema generale che viene da molto lontano… Sembrava fantascienza poter rimpiangere le politiche culturali di qualche anno fa, e invece siamo costretti a farlo…
La cosa più potente del cinema è l’immagine, e il suo movimento: questo è il respiro del cinema e bisogna saperlo fare.
In passato, molti registi italiani non hanno sfruttato bene questa prerogativa. Ma quando produciamo un buon film noi, non c’è paragone. All’estero ci stimano: c’è considerazione per quello che facciamo.
Vincere, di Bellocchio, è bellissimo; il film di Piccioni è bellissimo… Baarìa ancora non l’ho visto… ma di Tornatore ho apprezzato moltissimo Una pura formalità e La sconosciuta, oltre a Il Camorrista (e naturalmente Nuovo Cinema Paradiso)».
A vent’anni da quel principio, se ti chiedessero quali sono state le critiche più costruttive e i complimenti più gratificanti che ricordi? Sarà un marasma, ma cosa ti viene in mente?
«Beh… all’inizio non avevo scelto questo mestiere: non avevo programmato, non avevo studiato per farlo e mi sentivo spaventatissima. Mi sentivo quasi come se stessi usurpando qualcosa che forse non mi apparteneva.
Ero terrorizzata, sul set, per la scena che dovevo girare con Noiret. Tremavo. Lui era il “grande” Philippe Noiret. Avevo passato l’adolescenza tra i cineclub di Roma… e lui era un mito. Mi chiese: “Ma che c’è?”, vedendomi tremare così tanto. Gli risposi che mi sentivo spaventata perché non avevo una vera formazione. Allora mi disse: “Qualsiasi scuola ti può dare delle cose, sì, ma nessuna scuola è come questa. È qui che si impara. Quindi recitiamo.”
Mi dava la battuta in francese e le ultime quattro parole in italiano. Meraviglia.
Dopodiché non so più per quanti progetti ho lavorato gratuitamente, perché non mi sentivo abbastanza preparata» (ride, nda).
Questa quindi è stata la tua (auto)critica più importante. E l’apprezzamento?
«I complimenti mi imbarazzano. Sono davvero timida! Frequentemente mi dicono: “Sei più bella dal vivo che in televisione”, o che sembro più giovane… E poi ci sarà sempre “Elena”. L’icona dell’amore perso: un’icona transculturale. A me arrivano email dal Giappone o da paesi che non ho mai sentito in vita mia. O magari gli uomini mi riconoscono e arrossiscono perché ritrovano quel personaggio… »
… e quello che significa. Che rapporto hai tu con un’icona simile? Con l’idea della felicità perfetta e fugace, con l’eventuale, rimpianto, magari…
«Ci sono cose che potevo fare diversamente. Chissà, alcune scelte che ho fatto non sono state produttive, nella vita in generale e non solo nella professione. Ma devo dire che non ho rimpianti veri e propri.
Io sono che pensa molto e al contempo è molto istintiva. Se stai a contatto coi tuoi sogni e i tuoi bi-sogni, lo sai dove devi andare… Di fronte a una scelta, io tendo a “scomporre” le situazioni che mi vengono presentate. Dalla mia formazione familiare, ho imparato che le cose hanno almeno nove punti di vista (sei fratelli, madre e padre). Tendo ad utilizzare tutti gli occhi che amo, analizzo il più possibile. Ma alla fine la scelta sarà quella che avrei fatto istintivamente. E francamente no, alla fine non ho rimpianti».
Un rapporto abbastanza intimo con te stessa. Come va invece coi “caratteri” che porti a teatro o al cinema?
«Beh, mi capita di leggere moltissimo, per preparare caratteri diversi da me. Di recente c’è stato un personaggio in tv, per una serie (“I liceali”, nda) in cui interpreto una madre con una forte instabilità psicologica, una madre che possiamo definire “bipolare”, ho dovuto anzitutto capire a fondo cosa sia una personalità bipolare. O per il ruolo di Chi ha paura di Virginia Woolf a teatro, il personaggio soffriva di disturbi alimentari… Quindi ho dovuto capire di cosa trattasse, non avendone mai sofferto. Ho letto anche un bel po’ di libri di psicologia».
Il teatro sembra regalare a tutti gli attori che lo fanno dei regali e delle sensazioni che non hanno a che vedere col resto dei format. Tu che esperienza hai?
«Il teatro è sano. Non ci sono filtri. È una delle poche esperienze in cui davvero senti il tempo. Hai la sensazione anche di poter morire. Per come funziona il nostro cervello… A teatro hai l’esperienza del presente come da nessun’altra parte. Nelle lunghe serialità in televisione, per esempio, si perde un po’ di contatto con la realtà: lavori ogni giorno, ti vengono a prendere all’alba e smonti la sera.
A teatro, capisci esattamente dove sei, e devi essere “onesto”. Se non lo sei, ti “tanano” immediatamente. A teatro non si rifà niente. Lo ripeto: è sano, e lo consiglio a tutti quelli che vogliono fare gli attori».


Clip:
http://www.youtube.com/watch?v=IvRB9HFKeZ0

da Inscena magazine, novembre 2009.

"Il teatro è una malattia!"


(Da Inscena Magazine, settembre 2009)

«Per un periodo della mia vita ero continuamente in giro: Firenze, Bologna, Rimini, Riccione, Pisa, Valdaosta… Una pallottola impazzita. Anni fa passavo davanti alla Pergola a Firenze, l’anno prima di andare a Roma, e pensavo: “Questo è il posto più bello del mondo… Chissà se un giorno mai...” Il mio era un pensiero costante, e lo è ancora adesso: lavoro, scoperta, crescita, voglia di fare. Credo di essere stata fortunata ma anche di essermelo cercato abbastanza. Lo sto facendo come mai avrei pensato…»

Parla Marianella Bargilli. Un background un po’controverso: la “Marianella” del reality più famoso del mondo, di un’edizione ormai abbastanza lontana che – dice – non l’ha portata in nessun luogo o a nessuna convinzione che non fosse già chiara nella sua mente. Nella fattispecie, il teatro. È oggi la primadonna del Teatro Stabile della Calabria, al fianco del compagno Geppy Glejeses. Conferma senza esitazione che una figura simile al suo fianco fa la differenza soprattutto nel rapporto con se stessa: è una fonte di notevole sicurezza.
Ma, se c’è una cosa per la quale desidera essere osservata, è questa sete di sperimentazione e questa ancestrale attitudine al lavoro di attrice. Una dipendenza ed una vocazione che racconta con gioia quasi contagiosa.
La prima domanda – le dico io – è scontata…

Marianella che esce dal GF: che succede?
«Beh, al di là della popolarità e di un’immagine molto più esposta, niente di particolare. Il Grande Fratello non mi ha fatto fare scelte che diversamente non avrei fatto, e non mi ha neanche spalancato le porte nuove, illuminazioni di sorta. Tutti quelli che sono usciti hanno fatto cose che prima non erano minimamente nelle loro teste… A me non è servito per capire il mio futuro. Il lavoro che faccio adesso è il lavoro che volevo fare fin da bambina.
Subito dopo mi sono trovata spesso in televisione, ma non mi sentivo a mio agio. Quando ami il teatro, la televisione la vedi proprio come un’altra cosa… Non dico che non si possa fare niente altro (ho presentato per Sky, per esempio, e mi sono divertita: è stato un bel percorso). Ma l’amore per il teatro è un amore talmente forte che vorresti stare solo lì e creare cose inerenti solo a quel mondo. Subito dopo ho incontrato lui (parla del compagno Geppy Glejeses, nda). Ho fatto questo anno con Sky, inventandomi trasmissioni che parlassero anche di teatro, e poi sono passata al teatro vero e proprio, sono cresciuta e ho iniziato un percorso fatto di personaggi bellissimi…»
Laureata DAMS e storica appassionata di danza… Hai sfruttato i tuoi pregressi musicali sulla scena?
«Per quanto riguarda la musica, sono stata protagonista di un monologo – una storia di Osvaldo Guerrieri, critico de La Stampa – per la regia di Emanuela Giordano: la vera storia di una squadra di calcio, di un paesino molto piccolo che arriva alla finale della Coppa di Francia nel 2000. Come se il Cecina (il mio paese) vincesse il campionato! (Ride, nda). Lo abbiamo portato in scena fino a poche settimane fa (al momento in cui parliamo siamo in primavera inoltrata). C’erano tre musicisti: alla chitarra, al violoncello e al contrabbasso. C’era anche una bella fisicità, una fisicità sportiva, nello spettacolo, ma per il momento non ho ancora lavorato con la danza a teatro. La fisicità e i movimenti in generale sono una mia “fissa”, è la prima cosa che cerco di assegnare a un mio personaggio: sono stata formata così… Sulla danza vera e propria, sto cercando di capire come crearvi attorno un prodotto per il teatro: chi potrebbe affiancarmi – ci vuole un maestro – e come proporlo sul “mercato”, come produrre e far girare lo spettacolo. Io sono una persona piena di idee, sto molto attenta a queste cose… L’anno scorso per esempio mi sono occupata di un Festival a Ponza nel quale ho curato proprio tutto, fino ai depliant. Mi ero costruita un gruppo di lavoro e ho seguito tutto dalla A alla Z. Il teatro è una malattia!»
Esperienze trasversalissime, dunque. A questo punto della carriera, c’è un ruolo in particolare che ti piacerebbe interpretare?
«Mi piacerebbe moltissimo sperimentare la mascolinità: un bel ruolo maschile. La mascolinità è una
parte che credo di avere e che vorrei portare in scena. Ci sono personaggi femminili stupendi, per l’amor del cielo, i personaggi shakespeariani (mi viene in mente Lady Macbeth, ma anche tanti altri…), o magari fare un musical, ma un personaggio maschile mi divertirebbe moltissimo. Il personaggio femminile con cui ho debuttato è stato invece Elisa Doolittle, il pigmalione di Bernard Shaw: è uno dei personaggi più belli mai scritti per il teatro. Elisa che, da fioraia si emancipa e diventa duchessa, e scopre anche la sua ricchezza interiore. L’abbiamo proposto in prosa, per cui anche con una ricerca di verità. Una bella creatura. Ma anche Silia ne Il giuoco delle parti è stato una bella galoppata: quando ci sono grossi precedenti teatrali su quel personaggio, quando il personaggio diventa un cult, il confronto è molto difficile da gestire. Gli addetti ai lavori ti aspettano al varco! (ride, nda). Quello di Silia è stato un personaggio di Rossella Falk ricordato da tutti.»
Fisicità particolare: eterea eppure forte, probabilmente perfetta per il teatro. Ma davvero non ti manca il cinema?
«Il teatro ti assorbe da settembre a maggio: non ho mai cercato un’esperienza cinematografica per non allontanarmi dal teatro, mi toccherebbe rinunciare a quattro o cinque mesi di tournée. Dopo il GF non ho mai smesso di lavorare. Adesso che sono a Roma, e sto lavorando al Quirino, sto meditando qualche incontro per il cinema… tanto per non lasciare nulla di intentato. Anche perché non credo di non esserne capace; se c’è una cosa di cui sono sicura è che posso fare questo lavoro. Non so se il cinema sia fatto per me, piuttosto.»
Semmai lo facessi, con quale regista vorresti lavorare?
«Credo che il cinema italiano sia in fermento; il regista cinematografico che apprezzo di più è Sorrentino: per la bellezza, la pulizia e la ricerca fotografica dei suoi lavori… Il Divo è uno dei film più belli che ho visto negli ultimi anni. Sorrentino lavora divinamente con la macchina da presa. Io sto molto attenta all’immagine: ho avuto la passione della fotografia per tanti anni, e in ogni caso anche il teatro si pone il problema di “immagine” da creare e trasmettere. Sorrentino è vicino ai francesi, mi ricorda Truffaut, che ho adorato… e che però rispetto a Sorrentino era pieno di “cose che parlavano di altre cose” (Sorrentino è più “pulito”): questi due registi condividono una notevole armonia di fondo. Per un’esperienza del genere – con Sorrentino – si potrebbe pensare a fare qualche rinuncia.»
Altra domanda davvero d’obbligo anche stavolta. Cos’è che rende unico il teatro?
«La verità. Il fatto che ti trovi su delle tavole, già occupate da tantissime persone. Persone che hanno sudato, pianto, fatto tutto là sopra: recitando, che è fondamentale. Il fatto di avere tanti esseri umani davanti, che ti guardano, i loro occhi: più guardo gli negli occhi il mio pubblico più ho voglia di parlare alla gente. La presa diretta di tutto: di energie, di sensazioni, di quello che stai provando e dicendo… Il teatro è tutto così: dal momento del viaggio (che è il viaggio verso qualcuno e quel qualcuno è il tuo pubblico) al momento della scena. L’attore è un grande egoista, che prende tutto… ma dà anche tutto. Sul palcoscenico ti senti avvolto dalle energie. Penso di avere ancora tanto da imparare…
È un costante “work in progress”. Per esempio non mi dispiacerebbe un’esperienza in Francia: recitare in un’altra lingua sarebbe una bella prova.»

Lui. L'erede.


(Edito da InScena Magazine nel luglio 2009. Intervista all'attore teatrale Geppy Glejeses. Il "tema del mese" del mensile era: I sette vizi capitali)

Se lo sviscerato amore verso qualcosa – una cosa qualsiasi – fosse per paradosso “l’ottavo vizio capitale”, qui avremmo un peccatore incallito. Riamato, certo: amato con la stessa intensità, dal teatro italiano e dai suoi sostenitori di razza. Geppy Glejeses è stato l’allievo favorito di Eduardo De Filippo. Probabilmente non c’è chi pronunci questo nome con più devozione e più forza evocativa in tutto il nostro Paese. Attore, regista, direttore di teatro, ci racconta l’eternità del suo lavoro: “il lavoro più bello del mondo”.

Cosa è rimasto del Maestro, nell’interprete e nel regista?
«Tantissimo. Eduardo è profondamente nella mia vita. È nella mia vita la sua lezione, il suo rigore, l’idea di aver dedicato tutto al teatro. La sua arte. Spero che un briciolo della sua arte sia anche in me. I risultati che ho ottenuto come allievo, anche se in qualche modo “indiretto” di Eduardo, sono straordinari… Io rifiutai di lavorare con lui nel ’72, che avevo 17 anni. Pensavo che la storia si sarebbe conclusa lì. Rifiutai perché venivo da una famiglia borghese, mi ero appena diplomato e mio padre voleva che studiassi Legge. Io però avevo appena finito di recitare in una commedia amatoriale e quell’anno avevo visto una dozzina di volte i suoi spettacoli… Mia sorella, tra l’altro, faceva la figurante con la sua compagnia. Nel ’74 lui si ricordò di me, mi volle nel ruolo di Pulcinella. Io credevo mi volesse per la parte del figlio e invece: “No, no. Voi dovete fare la parte mia! Voi o’ppotite fa’!” E così fu. Fui scelto per quello spettacolo e rimasi per venti giorni a Parma. Poi me ne andai perché avevo individuato in quella iniziativa degli intenti “politici” più che teatrali: loro volevano qualcosa tipo “Pulcinella capitano del popolo”. Ma Eduardo non me ne volle ancora una volta: forse capì che era giusto così… E nel ’75 io gli chiesi i diritti di due sue commedie: Chi è cchiù felice ‘ e me e Gennariniello. Mi indicò come metterle in scena e come interpretarle, ed io imparai tantissimo da quella lezione, e dal fatto che ebbe il coraggio di affidare a un ragazzino come me le sue commedie. Cosa che poi avrebbe fatto anche il figlio Luca successivamente. Non ho più interpretato Eduardo per molti anni. L’ho portato dentro di me ai provini, ai premi che mi hanno riservato… Ma nella stagione ’98-99 ripresi un suo spettacolo: Il figlio di Pulcinella, anche per onorare il centenario della nascita di Eduardo. Grandissimo successo. In seguito, per due anni, Io l’erede ».

A proposito di Io l’erede, il grande Masolino d'Amico scritto di lei che in quella performance il suo stile “annichiliva il resto della compagnia.” Eppure ci sarannoo casi in cui le alchimie tra i talenti sono esperienze uniche. Quali si sente di menzionare, in questo momento?
«Oltre Eduardo? Beh, tanti grandi registi. Luigi Squarzina. Inoltre, ancora “bambino”, fui capocomico di Pupella Maggio. Ho diviso la compagnia con lo stesso Luigi De Filippo (lui aveva i ruoli di Eduardo ed io di Peppino, nelle commedie di Peppino). Ancora, Alida Valli, Arnoldo Foà, Marina Malfatti, Sandro Sequi, grande regista scomparso, purtroppo; o ancora Mario Monicelli, Giancarlo Cobelli.».

Una figura femminile su tutte?
«Ho lavorato per due anni nel maggior successo commerciale della mia vita. (Grande successo anche artistico, comunque, botteghino a parte). Era con me Lucia Poli. Artista “strana”, di quelle che stanno in sordina, fanno lavori di nicchia. Abbiamo lavorato insieme ne L’importanza di chiamarsi Ernesto. Il risultato fu meraviglioso. Apprezzo molto la forza di occuparsi anche del lato manageriale di questi progetti, coltivato con amore e professionalità. Del resto, ancora grazie alla lezione di Eduardo sopra quella di tutte queste persone che hanno segnato la mia storia, posso dire di essere diventato “imprenditore”, “imprenditore di me stesso”…»

Il teatro Stabile in Calabria. Ci parli di questo progetto e dei feedback che sta riscuotendo.
«Dopo aver gestito una compagnia molto importante per svariati anni, a un certo punto ho diretto il Teatro Nazionale di Milano, dal ’92 al ’99 (per intenderci, era quello in cui si assegnavano i “telegatti”). Ma Milano era già abbastanza “viziata”, piena di teatri. In Calabria piuttosto, non c’erano realtà importanti. Il Consorzio Teatrale Calabrese era fallito; c’era qualche attività sperimentale, ma nulla di solido. Io sentii l’esigenza di creare qui un polo imprenditoriale importante. L’idea iniziale partì da Crotone, poi estesa a Rende (CS), col Garden, e sono attualmente consulente del sindaco a Reggio Calabria per il Cilea. E il mio si è dimostrato progetto più forte delle difficoltà, anche per merito dei numerosi collaboratori. Abbiamo concorso al bando europeo e abbiamo vinto la gara per l’acquisizione del Quirino di Roma: abbiamo concorso contro il Bellini di Napoli, per esempio. Il Quirino è il tempio dell’attore di prosa, ha celebrato tutti i maggiori mostri sacri del teatro in Italia e ora è nostro. Siamo il più importante gruppo in Italia».

“Mostri sacri”. Giganti. In effetti, a proposito di “istituzioni” teatrali e letterarie, non posso fare a meno di osservare che lei ha mosso i primi passi da classici partenopei come Pulcinella, e la strada è stata lunga e disseminata di classici, anche internazionali. Il “classico d’autore” è un’attrattiva sempreverde: ma ci sono delle ingenuità da evitare, quando si porta in scena un capolavoro universale?

«La cosa importante è considerare il classico come materia viva. Non da rivitalizzare, ma viva per conto suo. Dobbiamo considerarci dentro questa materia… Il classico va tradito. Tra-dire: cercare nelle pieghe dei significati. C’è una lezione continua che si può assorbire dai classici e senza fare operazioni di antiquariato. Imitare non serve a nulla e non fa parte dell’arte, significa non avere progetti né produttivi né interpretativi. Pirandello, Eduardo, Shakespeare, Molière, Wilde, sono ciò che chiede il pubblico: ma l’operazione da impostare sul testo classico non deve puzzare di naftalina e scheletri nell’armadio riesumati ad hoc. Le faccio un esempio. Lo spettacolo in scena a Reggio (Ditegli sempre di sì, nda) è una commedia che si conclude drammaticamente. Alla fine, il protagonista Michele Murri sta per tagliare la testa al suo doppio (tale Luigi Strada). Questi è un giovane attore sgangherato e squattrinato: lo specchio ustorio, l’alter ego e la malattia stessa del protagonista. Tagliare la testa all’alter ego vuol dire liberarsi dalla malattia, perché la malattia è proprio nella sua testa. Per non dispiacere il suo pubblico, Eduardo ha sempre concluso questo spettacolo in farsa. Io invece vado fino in fondo. E se Eduardo lo avesse visto, lo avrebbe amato. Anche tradire, anche cambiare le cose, può voler dire “portare alle estreme conseguenze” quel classico. Rispettarlo di più».

Si dice Riduzione teatrale. Passaggio da un testo non nato per quell’ambito a quell’ambito, quel luogo che lei ama così tanto. Cosa “si riduce” – se qualcosa si riduce – quasi semanticamente? E cosa invece acquista estensione, a teatro?

«Tutto è figlio del teatro. Cambiano i mezzi tecnici, ma almeno il cinema nasce dal teatro. E naturalmente, nulla quaestio se l’operazione è un’operazione di valore. L’autore di Delitto Perfetto Frederick Knott utilizzò una commedia gialla, per esempio, che abbiamo messo in scena anche alla luce del film di Hitckock, ma in effetti la sceneggiatura nacque da questo Dial M. for Murder. A me piace il teatro a trecentosessanta gradi. Il teatro, sa, non sappiamo quando sia nato e certamente non morirà mai. Fino a che ci saranno tre persone sulla terra, una sul palco e due a guardarla, ci sarà spazio per il teatro. E non ci sarà più bisogno di niente. Può sparire tutto, qualunque supporto… inclusa la memoria, ma resterà sempre la possibilità di farlo. Dove c’è vita, dove c’è rappresentazione di sé, ecco il teatro, ecco l’intesa. Il lavoro più bello del mondo».

La voce delle giovani icone



Stella Musy è la sempreverde “traccia italiana” di serie tv americane e perle dell’animazione giapponese come il cult (senza censure) “Kimagure Orange Road”. Amatissima soprattutto dal pubblico giovane, è una doppiatrice in ascesa anche nel panorama cinematografico.

Sei una Voce super-apprezzata per alcune serie tv. Eri la Jen di Dawson’s Creek, la (molto diversa) Charlotte di Sex and the City, la Melinda di Ghost Whisperer… Quale tra i personaggi dei telefilm ti sei sentita più “addosso”? Quale ti è calzato più a pennello?
« Sex and the city: è stata una serie che ho doppiato con grande piacere, divertentissima!“Ghost”, ormai la doppio da così tanto tempo… Forse è proprio questo il personaggio che mi sento più “addosso”».
È possibile che un doppiatore, per quanto versatile, riesca ad esprimere attraverso le sue interpretazioni un lato preponderante della sua personalità? Non so: la malinconia, la verve comica… Semmai così fosse, che percezione avresti delle tue attitudini interpretative?
«Sì, è possibilissimo.. Anzi, a volte i provini o le scelte dei direttori vengono fatte proprio con questo criterio, anche se un buon attore deve saper fare un po’ di tutto, essere versatile! Non c’è uno stato d’animo nel quale mi identifico particolarmente… A me piace cimentarmi in tutto».
Ti vidi al TG Rai, proprio per Sex and the City. Cosa ti ha lasciato questa esperienza in particolare durata “6 stagioni e un film”?
«Il piacere di aver doppiato una serie particolare… E un po’ di dis-piacere perché non è durata quanto tante altre… Peccato!»
“Coco avant Chanel”: Audrey Tautou è un’attrice che ti è vicina nella freschezza e nella delicatezza. Qual è una star di Hollywood che ti piacerebbe doppiare in futuro, che ti senti “nelle corde” ma sulla quale non sei ancora stata distribuita?
«(Grazie per il complimento…) Non ce n’è una in particolare: l’importante che sia un’attrice brava, dalla quale poter rubare e imparare qualcosa».
Gli aspiranti doppiatori – mi dicono – fanno straripare le sale. Come dovrebbe formarsi un buon professionista del tuo campo?
«Ci sono delle scuole… Ci sono dei direttori ancora vogliosi di insegnare… Ma la cosa più importante è la determinazione, l’umiltà,e soprattutto un po’ di autocritica nel saper capire se si è portati o no per questo mestiere… E infine tanta pratica!»
Cosa rappresenta per te, il cinema? Che relazione hai col cinema da spettatrice?
«Mah, in fondo ho il rapporto che potresti avere anche tu, credo: sono una spettatrice come
chiunque altro. Forse solo un po’ più attenta…»
Cosa pensi del doppiaggio d’animazione?
«È una cosa differente dal doppiare un attore, chiaramente. Ma è altrettanto divertente, anche perché puoi provare a mettere qualcosa di tuo… Non sei costretto a dover seguire tutte le intenzioni di un attore…Diciamo che è più “liberatorio”!!!»

(da InScena Magazine, marzo-aprile 2010)

Il servizio del tg2 sul doppiaggio di Sex an the City:
http://www.youtube.com/watch?v=p7FQyfVtF7s

Lost. Smarriti sull'isola, tra scienza e coscienza.


(Ebbene sì. Re-incontro con Massimo Rossi, stavolta per parlare di "Lost" e di quello che succede agli script dei suoi episodi prima della distribuzione italiana. Quali sono le prerogative di questo serial nella nostra terra?)

Parola del direttore: «Solo a guardare la prima stagione, si intuisce che il format di Lost è quasi uno shock. Un’isola senza ieri, senza oggi, senza domani. Pensa a una serie in cui su un’isola tropicale – immagina le Maldive – si trova un orso polare, la fantascienza viene il più possibile incontro alla realtà e la sceneggiatura è costellata di frammenti che fungono da… “ami psicologici” pari a quelli della pubblicità occulta. Tanto per menzionare un episodio, una volta c’è una visione di Hurley, interrogato dalla polizia: si trova di fronte a un vetro da cui riesce a vedere, una volta rimasto solo, il suo amico morto sull’isola. È come se si trovasse sott’acqua, che sfonda il vetro e allaga la stanza. (All’arrivo del poliziotto non ve ne sarà traccia, perché tutto avviene nella mente di Hurley). In quella sequenza, mai e poi mai lo spettatore riuscirà a carpire un dettaglio fondamentale: sulla mano del personaggio sott’acqua, c’era un messaggio scritto: “They need you.” Elementi come questi, frequentissimi nel serial, sono accessibili solo sotto la lente degli appassionati (vedi Lostpedia, siti-web e circoli di questo genere) ».Già. In effetti Lost è un prodotto sorprendente, pressoché incomprensibile a chi non lo segua passo passo, ma di suggestione a cavallo tra boom mediatico, letteratura e filosofia.
Lasciamoci raccontare intanto il rapporto con la produzione originale e il cuore del serial.

«Dagli States ci sono stati riservati degli Special, a cura dei due sceneggiatori principali: Lindelof e Cuse. Siamo venuti in contatto con un riepilogo e con un piccolo “preventivo” sulle soluzioni ai quesiti della serie. Il pubblico è stato sottoposto a delle incognite nel corso di tutte e quattro le stagioni. Sai, la fisica quantistica, che ha qualche precedente in Star Trek e nel suo teletrasporto, avrà un impatto centrale nelle sorti di Lost. E questo concetto scientifico per cui si nasce… ma non si muore mai, si muore e si rivive, finisce con l’orientare le risposte che gli spettatori attendono…»
Nella tua esperienza personale con Lost hai da segnalarci qualche chicca nella ricezione italiana? Difficoltà? Cautele? «Un piccolo esempio: c’è la parola Dude, intraducibile e ricorrente nel personaggio di Hurley, che per noi è diventata Coso…In fatto di lievi censure, invece, la Buena Vista (oggi Disney) sottopone i copioni a una sorta di “supervisione”, ma piuttosto lieve perché in effetti traduttori e adattatori hanno già valutato i testi accuratamente. La Buena Vista non gradisce che traduciamo parolacce e aggettivi un po’ offensivi. “Idiota” è addirittura un po’ forte. Ma gli input più interessanti si legano al concetto del tempo.» Lo ribadiamo: le categorie aristoteliche si annullano, qui, perché gli episodi sono disseminati di backward e forward a prova di ‘spettri della coscienza’ e sono questi la passione dei fans: «Gli sbalzi temporali riportati nelle battute in italiano perdevano correttezza grammaticale o significato, ed è occorso cercare delle equivalenze. Esempio. L’ultimo problema che abbiamo avuto con Lost. Parlare del presente nel passato, in italiano è diverso che in inglese… [A questo punto è indispensabile spiegarsi con un altro riferimento concreto] In un certo episodio, c’era una bomba da disinnescare. Viene pronunciata questa battuta: “A vent’anni da adesso, l’isola è qui,” in luogo di un più usuale “Tra vent’anni l’isola sarà qui.” Il personaggio che pronuncia la battuta è radicato al suo presente, parla del suo presente: parla del presente trovandosi nel passato, ed è qualcosa che, a discapito della chiarezza o della correttezza, doveva essere mantenuto così. Il “quando” e il “dove” sono stati controversi e abbiamo dovuto prendere delle decisioni un po’ radicali… Lo stesso vale la scansione delle unità temporali. “When am I”, “A quando mi trovo”: mai e poi mai parlare del “momento” o dell’ “anno” in cui siamo. Questa è la normalità, il linguaggio comune. La frazione di tempo in sé, invece, non fa per Lost. E fu complicato trovare la formula giusta per sintetizzare “dove” e “quando”. Dunque, “a quando” e “mi trovo”. Siamo scesi a compromessi e speriamo di aver fatto il massimo, ma sono stati problemi difficili da risolvere.»
Il legame tra storia e parola è quindi un’alchimia delicatissima in un lavoro del genere. E quel che accade nell’habitat linguistico in cui nasce deve essere ricalcato con la piena fedeltà nei luoghi in cui arriva.
Ma concludiamo con delle annotazioni di bordo molto importanti:
«Noi non perfezioniamo le produzioni americane; nel migliore dei casi le eguagliamo… Qualche volta purtroppo rischiamo di peggiorarle. I serial sono un’attività di gradimento e si ha il vantaggio di entrare nella quotidianità: solo per Lost siamo al centesimo episodio dei 120 in cantiere.» Impossibile quindi non approfondire: a livello affettivo sei “preso” da questo telefilm? «Parecchio. Al Festival del Cinema ho anche incontrato alcuni attori della serie (i personaggi di John Locke e Desmond Hume, per esempio)… E devo dire che sono stato colpito soprattutto da Jorge García, Hurley, un grande attore che in Italia avrebbe fatto al massimo il ‘carattere’. Eppure non è tutto oro quel che luccica: gli Stati Uniti brillano anche per la vendibilità di quello che producono: noi abbiamo fatto scuola, in materia di cinema, ma il loro impiego delle risorse è più fruttuoso.»
(Comunque Massimo ci confessa che il maggior “tesoriere dei copioni italiani” di Lost è sua moglie Sabina Montanarella, una brava e operosa assistente al doppiaggio). Rischiano di scadere nella semplificazione, gli sceneggiatori di questo materiale? È inevitabile dare una fine a questo piccolo e complesso gioiello, animato da una trasversalità davvero senza precedenti… Dunque, finché siamo tutti curiosi di sapere come va a finire… Stay tuned.

(da InScena Magazine, maggio 2009)

"Volevo fingere di..."



Bastardi senza gloria (di Quentin Tarantino e attualmente nelle sale) è la sua performance cinematografica più recente.
Prima era stato la voce italiana del Dr.Dave in I love radio rock, e assai prima ancora quella di Michael Moore in Farenheit 9/11.
Formato serial, ha invece “sonorizzato” il bel viso di Blair Underwood nella prima stagione di In Treatment, e ha partecipato al cast italiano di Grey’s Anatomy e Lost, tra gli altri.
La carriera Massimo Bitossi è fatta di “storia recente”, come dice lui stesso, ma nondimeno di occasioni per approfondire la sua notevole creatività. Appassionato al mestiere come pochi, risponde alle nostre curiosità con un punto di vista franco e pregno delle nuances del caso.

La maggior parte dei doppiatori ha un accento romano presto identificabile… Qui siamo in presenza di un piemontese DOC?
«Uhm… no, devo smentirti. È vero che sono nato a Torino e ho vissuto a Torino per trent’anni. Mio padre è cresciuto a Torino ma aveva genitori toscani; mia madre è veneta. E questo è già un mix un po’ strano… Io però sono cresciuto coi nonni paterni, quindi il “suono che avevo nelle orecchie” era il loro, perché i miei genitori all’epoca lavoravano tutti e due, quindi sono stato “allevato” dai nonni. E diciamo che la mia “parlata” non è stata quella tipica del torinese (vezzeggia l’inflessione torinese, nda)… Il primo corso di dizione lo feci, nel lontano 1994, con quello che all’epoca veniva considerato il maestro della dizione italiana (Iginio Bonazzi): ho cominciato a fare le prime cosucce, a lavorare, prima di finire il corso… Non è che dovessi liberarmi da chissà quali difetti… Quindi, tornando al “torinese” … no, non sono purosangue».
Approdato poi a Roma, con l’obiettivo del doppiaggio: settore che viene descritto spesso come ben poco accessibile… E invece, tutto sommato…
«Certi mestieri sono… Beh, mi viene in mente il soffiatore di vetro di Murano per cui non esistono vere scuole istituzionalizzate: si va a bottega, si fanno le prime schifezze e piano piano si impara. E lo si impara solo a Murano. Allo stesso modo, in un settore così di nicchia, si porta avanti l’attività come il figlio del soffiatore verosimilmente porterà avanti il lavoro del padre: io trovo fisiologico che una persona che fa il doppiaggio instradi il proprio figlio a questa professione. Soprattutto se capita che per caso ci sia bisogno di un bambino in sala, che giustamente entra in sala “con papà”. È normale. Poi c’è gente come me, che magari non viene neanche da Roma, che è la capitale anche di questo mestiere; persone che però hanno sempre voluto fare questo lavoro perché fin da piccole sono state stregate dalle voci italiane…
E quindi io sono venuto a Roma. Lo spazio in effetti c’è. L’importante è dimostrare di saper fare bene e subito, dal primo provino..».
Avevi pregressi recitativi?
«Ho iniziato dopo il servizio militare, all’oscuro dei miei genitori. Non respirando l’ambiente artistico, loro avrebbero considerato questo obiettivo come un capriccio. Cominciai in una piccola radio locale, dove ero la voce degli stacchetti pubblicitari, dei lanci e dei promo; poi feci per un po’ l’animatore radiofonico, ma la conduzione non mi piaceva. Volevo recitare. Non volevo essere me stesso, ma fingere di. Ho cominciato con un corso di doppiaggio, ho fatto un programma in Rai per bambini (La Melevisione, dove ero l’Orco: un impegno attoriale a tutto campo), e poi il salto verso Roma. Il resto è storia recente, perché dal 2002 sono qua».
In tutta sincerità, un telefilm suggeriresti di guardarlo doppiato o in originale?
«Premessa: il mio lavoro lo faccio con una grandissima passione. È un lavoro che ho voluto, che ho desiderato tantissimo fare, affrontando ostacoli che si sono rivelati maggiori rispetto a tanti altri. Però noto che, man mano che “invecchio”, accuso un senso di “frustrazione” su questo argomento. Il doppiaggio – inutile negarlo – soprattutto in Italia, viene fatto per un’operazione commerciale, finalizzata alla distribuzione cinematografica e alla vendita del prodotto. Più volte ho parlato con persone straniere, l’ultimo aneddoto risale a un viaggio in Islanda nel gennaio del 2009, dove, parlando con una persona, e spiegandole qual era il mio lavoro, mi sono visto guardare come un marziano: “No! Ma questo è terribile, perché non consente di imparare le lingue straniere”. Io non penso che la colpa sia tutta del doppiaggio. Attribuisco la maggior parte della responsabilità al sistema scolastico… Però l’abitudine a sentire tutto doppiato fa sì che non ci sforziamo di imparare le lingue. Facendo un’analisi demografica, l’Italia è a crescita zero. Magari fra cento/duecento anni la nostra lingua sarà parlata da una minoranza, e la lingua principale sarà un’altra; poniamo caso... l’inglese. Ora: se io do un libro in inglese a una persona che non ne conosce una parola… è ovvio non otterrò nulla. Ma se metto un bambino davanti a un film in lingua, la gestualità lo aiuterà a capire e sarà tutto più facile. Quindi l’acquisizione della lingua straniera sarà maggiore in presenza di molti film in lingua originale».
(Croci e delizie della dedizione alla nostra bella lingua). Ho notato che tu hai un rapporto felice con la scrittura. Mi sbaglio?
«Non ho mai scritto né per me né per altri. Ho una scrittura facile… »
Espressiva e corretta, aggiungerei…
(ride, nda ) «Questa è una cosa che mi deriva dal perfezionismo. Io ho fatto un istituto tecnico commerciale… Scelta fatta all’epoca per un micro lavaggio del cervello: “Studia, sì, studia, ma l’importante è che tu abbia un pezzo di carta in mano”. Il che non è vero però così ho fatto. Delle materie tecniche non ricordo nulla… La cultura me la sono creata per i fatti miei più tardi».
Torniamo rapidamente al lavoro. Hai conosciuto personalmente Blair Underwood (alias Alex Prince). Che ti ha detto?
« Era luglio scorso, Roma Fiction Fest. Mi è stato presentato e…»
… e dillo, com’era?
«Era bellissimo. Una meraviglia di uomo (ride nda). È alto… forse più di me (che sono un metro e ottantotto…), con un fisico meraviglioso… A me piacciono moltissimo le donne (ride nda), ma gli occhi per guardare ce li ho anch’io! È stato molto simpatico e mi ha detto: “Hi! You’re my Italian voice! Good friend”… E non molto di più. Ma è stato molto cordiale e simpatico».
In genere gli attori americani non sono molto aperti all’idea di una edizione nazionale diversa dall’originale…
«Questo è un problema nostro: l’italiano si parla solo in questo fazzoletto di terra, pur essendo in tanti. Non abbiamo colonie, non siamo spagnoli… Ogni tanto bisognerebbe ricordarsi che stiamo facendo l’edizione italiana e basta».
Alex era un personaggio dalla sensibilità straordinaria, che forse viene fuori alla fine. A occhio e croce si direbbe un po’ diverso da te. Quanto ti ha aiutato quell’attore, a “restituircelo” così bene?
«Ma sai che non è poi così diverso da me, Alex? Questo suo rigore… Io sono molto più spigoloso e rigido di quello che sembro, su certe posizioni; forse un po’ presuntuoso e“sicuro di avere la verità in tasca”. Ogni tanto mi ci rivedevo, ma è pur vero in fondo sono tutti difetti. Blair Underwood mi ha aiutato perché è un bravo attore… E, come ti avranno detto tutti i miei colleghi, doppiare un grande attore è molto più facile. Quando un attore non è bravo è problematico. Cerchi di limitare i latrati che fa lui».
(cioè di viene spontaneo fare quello che non dovreste fare: migliorarlo un po’…)
«Esatto. Quello che non dovremmo fare mai. Come se in una partitura di Mozart uno andasse a mettere una nota in più per migliorarla. Mozart avrà fatto quello che ha fatto a ragion veduta. È chiaro che, se senti un cane che suona una pianola, piuttosto che Mozart, un’aggiustatina gliela dai.
In Treatment è stata una serie che, per chi ha avuto la fortuna di lavorarci, ha costituito proprio una bella prova. C’erano monologhi lunghi e bisognava variare in tutto l’aspetto interpretativo».
Ecco, a proposito. A proposito di tutte quelle sedute di psicoanalisi che hai interpretato: con la psicoanalisi che rapporto hai?
«L’ho letto pochi giorni fa: come diceva Woody Allen, “la psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”… No! al di là di questa battuta, è sicuramente un regalo che uno potrebbe fare a se stesso, e che ciascuno forse “dovrebbe” farsi per conoscersi a fondo, ma a volte… sono un po’ diffidente perché ritengo che rischi di diventare moda. Oggi tutti vanno in analisi. Possibile che tutti abbiano dei problemi di tale mole? Vai dallo psicologo, paghi, spesso per sentirti autorizzato a fare un sacco di cose. Quasi fossero preti, confessori laici, a pagamento, che ci fanno sentire autorizzati, meno colpevoli. Lo studio dello psicologo è un posto in cui nessuno ti giudica, a differenza del confessionale: tanto “tu” sarai sempre assolutorio nei miei confronti e quindi a “me” verrà tanta voglia di andare in analisi. Ecco, in questi casi, ho le mie riserve…
Ma alla fin fine la “morale” è: ci sono andato anch’io!». (ride nda).

(da InScena Magazine, novembre 2009)

Un fenomeno d'essai.




Tra le migliaia di appassionati delle voci italiane, non c’è nessuno che non conosca e non apprezzi questo caposaldo dell’emisfero femminile, dal suono caldo e ricco di carattere.
Cristina Boraschi è un caso fuori dai cliché: non un familiare nel settore, e le idee molto chiare sul fatto che il doppiaggio schiuda le porte anche alle nuove leve… Purché ci siano il talento, la preparazione, la motivazione.


Sono sul “set vocale italiano” di Raising the bar. Come descriveresti questo progetto e di cosa ti occupi, nel particolare?

«Sto dirigendo e adattando la serie. È un gruppo di avvocati a New York. Nella prima stagione si occupavano anche delle loro storie personali, mentre adesso è tutto quasi esclusivamente sui casi legali, che sono molto interessanti: discutono le loro tesi e quasi sempre nessuno ha completamente ragione o torto… Forse però per lo spettatore rischia anche di diventare un pochino noioso doversi concentrare solo sui processi. Infatti nei telefilm si parte sempre dai casi professionali per andare poi sulle vite dei personaggi, ma questo secondo aspetto comincia un po’ a perdersi in questa stagione della serie… »

Il tribunale in Ally McBeal è un riferimento inevitabile… ma molto, molto diverso. Tu sei stata la doppiatrice “storica” di Ally, veneratissima anche in rete. E in quella esperienza, eri subentrata a un’edizione italiana precedente…

«La serie fu tutta doppiata a Milano per la tv svizzera. Poi la comprò Mediaset, che sentì il doppiaggio e pensò di rifarlo daccapo; in seguito scese “a più miti consigli”, decidendo di intervenire solo su qualche personaggio. Poi finì su “ancora più miti consigli”, scegliendo di doppiare daccapo solo la protagonista. Non che i doppiaggi di Milano fossero fatti male, almeno dal mio punto di vista: credo piuttosto che avessero pochi attori a disposizione e quindi poca possibilità di spaziare, con conseguente riciclo dei doppiatori sui personaggi minori. A Roma hai la possibilità di scegliere la voce più adatta a “quella faccia”, cambiare i comprimari molto di più… Per cui, fecero dei provini e subentrai alla collega di Milano. Mi dispiacque un po’: non credo sia stata un’esperienza gradevolissima per lei, alla fine, la sostituzione esclusiva della protagonista».

Sbaglio o c’era un’affezione particolare per quel personaggio?

«Assolutamente sì. Devo dire che l’ho fatto proprio “con la mano sinistra”: lavoravo da sola, a Roma, su dialoghi già realizzati… Ma mi venne velocissimo, naturale».

In molti rilevano che è piuttosto difficile che il doppiatore sviluppi un feeling coi suoi personaggi come l’attore originale: se non altro, per il fatto che deve lavorare (e a ritmi abbastanza serrati) su molti più prodotti. Forse non c’è il tempo per sviluppare questa preziosa empatia. Tu che ne pensi?

«Intanto è un lavoro che… è fatto proprio così. L’attore che in prima persona interpreta quel personaggio ha molto più tempo per prepararsi, quindi l’attaccamento al personaggio è necessariamente più forte; noi abbiamo vari turni al giorno, per cui siamo abituati a “ragionare” e “sentire” in termini un po’ diversi. Ovviamente possono esserci personaggi che ti piacciono di più, più coinvolgenti, con storie più affini alla tua vita e alla tua personalità, e non ti nascondo poi la componente della collaborazione: se ti trovi in un ambiente che ti è più gradito, con un direttore col quale ti piace lavorare, si determina un clima per cui tutta la lavorazione la “senti” molto di più rispetto ad altre…»

Quali altri personaggi ti hanno stimolata tanto, nei seriali?

«Bella domanda. Stiamo lavorando alla quarta stagione di “Brothers and Sisters”, dove doppio ancora Calista Flockhart: vicende familiari, psicologie interessanti… Forse adesso comincia a sentirsi un po’ la lungaggine, ma era partita molto bene».

Decisamente tu non sei nata in sala doppiaggio. Quali strade stava imboccando la tua vita, prima? E come sei arrivata qui?


«Intanto ho cominciato a 25 anni, per cui abbastanza tardi, quindi sono un caso doppiamente raro. Il percorso è nato proprio all’università, perché ho studiato (e mi sono laureata in) storia del cinema. Pensavo di fare qualcosa di inerente al cinema, ma“da dietro”. Speravo soprattutto di fare critica del cinema, non escludendo comunque neppure la regia. L’università non mi aiutò abbastanza, non mi diede la possibilità di andare su un set a veder girare, come invece avrei voluto. Dovetti arrangiarmi abbastanza per conto mio. E dopo l’università, sempre con l’idea di fare regia, mi iscrissi a una scuola di recitazione, tenendomi piuttosto in disparte perché non avevo un’idea molto decisa di fare l’attrice. L’insegnante di dizione rilevò che avevo una “bellissima voce” e che avrei potuto fare doppiaggio o radio, e mentre eravamo a scuola ci portarono a vedere dei turni di doppiaggio. Vidi di cosa si trattava e cominciai a pensare di poterlo fare. Ho cominciato ad assistere come tutti, con molta difficoltà a entrare, ma ho trovato persone che mi hanno aiutato. Facevo di tutto: facevo l’assistente al doppiaggio, battevo a macchina i copioni…»

Come mai niente recitazione a tutto tondo?


«Sono piuttosto timida, non mi sono mai convinta abbastanza di volerlo fare. Poi il doppiaggio è andato talmente bene che… Ecco, a me non piace pensare che, se una cosa non va bene per 2-3 anni, sono gli altri che non ti capiscono e che prima o poi “uscirai”: mi piace fare le cose bene e vedere i risultati. E col mio lavoro andò così bene che non ho mai pensato più di tanto di darmi alla recitazione “a tutto tondo”. Alcuni miei colleghi nascono invece proprio così: come attori a tutto tondo. Vedi, quando nacque il doppiaggio, era fatto da attori di teatro: il doppiaggio è nato immediatamente dopo il cinema e come il cinema attingeva dal teatro. Quando i doppiatori sono diventati una categoria specializzata, si è perso un po’qualcosa, ed io (purtroppo) faccio parte di questa categoria perché non ho fatto abbastanza, come attrice, per potermi definire tale (a parte una scuola). Il mestiere dell’attore è lo stesso del doppiatore, “all’ingrosso”, ma le tecniche di ogni categoria sono diverse. C’è tanta gente che nasce e cresce davanti alla macchina da presa, per esempio, e a teatro non sa da dove cominciare…»

Tu che tipo di cinema ami?


«Laureata in storia del cinema, non posso non essere snob. Mi piace il cinema d’essai. (Che non doppio). L’Italia ne acquista pochi e, quando lo fa, li doppia, il che per me è un grosso dolore! Ma mi trovo spesso a Parigi e lì mi godo di più questo tipo di cinema. La traccia originale è la dimensione del film d’essai: sono abituata al doppiaggio, ci sono cresciuta, ma un mongolo che parla italiano ancora non riesco ancora a vederlo... Ho diviso la mia vita in due parti: la vita di cinefila e la carriera di doppiatrice di cinema americano».

Della tv invece che opinione hai?


«Mi piace seguire anche le serie italiane. Stanno migliorando, ci sono molti attori bravi che purtroppo non vengono fuori se ancora non hanno un nome: da noi purtroppo vige ancora la prassi per cui ti mettono a fare il protagonista se sei di bell’aspetto… E invece c’è gente molto brava che dovrebbe trovare più spazio. Sembra che un bell’attore abbia presa anche se zoppica un po’ nella recitazione, per cui si trova a fare il protagonista; poi ci sono tanti comprimari che hanno la statura da protagonista. Tant’è che in passato si è consumata una vera e propria battaglia anche sul doppiaggio (italiano) di attori italiani. Quando iniziai io si doppiavano anche gli attori italiani. Mastroianni, la Loren, Fabio Testi, Giuliano Gemma… Tutti! Tutti i “belli”. Ma se oggi almeno li sentiamo con le loro voci, sappiamo com’è finita questa battaglia. Bene o male, sentiamo loro. C’erano però dei registi italiani che avevano e difendevano l’abitudine di “creare il connubio ideale” tra voce e volto…»

Chissà che non sia un problema di fidelizzazione a certe voci. Lo spettatore può avere l’impressione di trovarsi di fronte alla stessa qualità di un attore americano là dove sente la voce dello stesso doppiatore.

«Sai, non credo. Magari tendono solo a migliorare la loro “fattura”, anche se diventa un discorso un po’ spersonalizzante. Del resto i registi sono artisti che mettono lì la loro firma e sono liberi di fare quello che preferiscono (sorride nda)».

La “tua” Julia Roberts… La contendi quantomeno con un’altra doppiatrice affermatissima. Che prerogative ha la Roberts con la voce della Boraschi?

«Questo purtroppo dovresti chiederlo a qualcun altro. Io sono molto critica con me stessa, quindi preferisco che siano gli altri a giudicare. Sono di parte, mi sento dall’interno. Pensa che la prima volta mi sentii, un paio di battute in un telefilm, pensai: “Ecco, lo sapevo, l’hanno ridoppiata! Quella non sono io!”. E ora che mi riconosco… non mi piaccio! Posso giudicare due colleghi, ma con me non riesco ad essere esterna ed obiettiva».

In genere si domanda quali siano stati i modelli del passato, di un attore. Da Cristina Boraschi io vorrei sapere quali sono le “promesse del futuro prossimo”. Doppiatori emergenti ai quali concedi una benedizione per il loro talento.

«Quelli che fanno i primi attori adesso, e hanno 30’anni, sono già emersi. Stefano Crescentini e Federica De Bortoli sono due professionisti bravissimi… Mi è capitato di leggere che spesso “sono sempre le stesse voci”, quelle scelte per i film; ma questo capita perché, nel caso specifico, loro sono veramente bravi. Hanno tanta tecnica e tanto cuore: mi è capitato di lavorarci e ho visto quanta passione ci mettono, quanta attenzione prestano a quello che gli chiedi. Altra giovane molto brava – e diversa – è Domitilla D’Amico. Più particolare, molto brava anche lei».

A volte gli attori sono degli adolescenti, e i loro doppiatori decisamente no… Che meccanismi sono quelli delle “fasce d’età”?


«Spesso succede che siamo un po’ più grandi degli attori. Anche Julia Roberts ha dieci anni meno di me. A una certa età non si nota: poi, come accadde ad Amendola, per esempio, su Stallone che era sempre più “restaurato” e palestrato, può succedere che si invecchi e lo scarto si soffra di più».

A parte cinema e doppiaggio, a cosa ti dedichi?

«Mi piace scrivere, ma lo faccio solo per me».

Nemmeno un blog, nell’era di blog e network vari? È l’era di Facebook!


«Ancora no. Face book lo detesto proprio come concetto. Non mi piace l’idea di “ritrovare” persone con le quali non mi sento da anni: se mi si vuole cercare, basta un piccolo sforzo e ci si riesce, in fondo. Non mi piace l’idea di raccontare tutto di me: decido io con chi farlo e quando. Detesto il concetto di “Ti rifiuto e ti accetto”. Devi fornire un tuo profilo per essere identificato: o dici tutto o metti informazioni false… Io sono sempre stata un po’ gelosa del mio privato. Passo molto tempo al computer ma preferisco ancora il rapporto vis a vis. Poi ci sono i miei gatti, amo molto gli animali… E Parigi, dove ho una casa. Anche Roma è bellissima, ma vivo qui da trent’anni e non riesco a godermela da turista».

(da InScena Magazine, gennaio 2010)

Corde d'arte


Riconosciamo tutti la sua voce nelle battute di Kate Winslet e Nicole Kidman; ma la forza espressiva e la sensibilità di Chiara Colizzi traspaiono altrettanto nei suoi intensi occhi azzurri, quanto nel suo linguaggio efficace e consapevole. Il puntiglio di una caratterista esemplare.
Qualche settimana fa abbiamo visto Chiara al microfono del TG5, fresca del Gran Premio Internazionale del Doppiaggio. Cominciamo a parlare di telefilm… ma volgere lo sguardo al grande schermo è un passo obbligato.


Ci sono delle produzioni seriali alle quali hai partecipato con particolare interesse, avendo magari l’impressione di lavorare per un prodotto cinematografico?

«Cold Case, Scrubs, In Treatment sono tutte serie molto benfatte. È ovvio che hanno dei tagli e delle pretese meno costose, ma le differenze sono spesso costituite solo dai set e dalle location: sul piano della recitazione e del montaggio, non hanno nulla da invidiare al cinema. Poi, certo, la messa in onda rapida, la fretta nelle consegne (perché spesso l’edizione italiana esce quasi parallelamente a quella americana) rendono il lavoro in sala più frenetico. Si parla molto di più che al cinema: il tetto delle righe per ciascun turno è abbastanza superiore a quello del piano cinematografico, ma parlando di più bisogna stringere i tempi».
E da spettatrice quale serie segui di più?
«Non ne seguo tante. Il livello di stress e la presenza di mio figlio (gli spazi televisivi a certi orari sono praticamente suoi) mi portano un po’ a una sorta di “disintossicazione”. Guardo più talk-show, serali tipo Exit. Sono abbastanza maniacale con le serie che doppio e le guardo anche per darmi il tempo di un giudizio sul mio lavoro; in particolare con Samantha Who, che è molto prevaricante anche perché parla quasi sempre il mio personaggio».
La rubrica si è occupata di In Treatment, a più riprese. Tu eri la voce di Laura, coi suoi dialoghi lirici, pieni di immagini…
«Sì, ma più che il personaggio ricordo l’attesa verso la serie, che è stata così particolare. In effetti ho doppiato la stessa attrice solo in un altro film (parla di Melissa George); un film dell’orrore in cui lei era una madre e non avvertivo molta discrepanza tra me e lei; senza contare che quello non era film basato interamente sulla parola come invece era questa serie. Rispetto al ruolo di In Treatment mi sentivo molto più “grande”, più “matura”, e all’inizio ho fatto un po’ di fatica. Ricordo che il rapporto tra il mio personaggio e il protagonista era molto stuzzicante. E nell’insieme è stata un’esperienza molto bella: seguivo i fascicoli della serie puntata per puntata su internet».
Come sono stati i tuoi primi approcci con la caratterizzazione dei seriali?
«C’è stato Twin Peaks. Poi Beverly Hills 90210, o Melrose Place. Poi ancora feci una serie da protagonista con Flavio De Flavis (col quale sto lavorando adesso per Cold Case), che mi diede tanta fiducia, ma non fu una serie a cui il pubblico diede altrettanta fiducia: si chiamava Press Gang, produzione inglese per la tv dei ragazzi. Però era molto carina».
Se invece passiamo al cinema, quale delle tue attrici ti terresti per sempre, quale difenderesti “con le unghie e con i denti”?
«Penso proprio Kate Winslet. È quella più emozionante da doppiare, oltre che la più difficile. Lei è davvero sorprendente. Mi rendo conto che doppio Nicole Kidman con molta più facilità: evidentemente abbiamo delle corde simili, anche nella durezza, e forse anche il mio percorso verso certe emozioni assomiglia a quello della Kidman; le sonorità sono più vicine. Ma la Winslet ha capacità che la rendono ogni volta più interessante e devo dire che anche il suo fan club mi ha dato molta soddisfazione: ha redatto una serie di giudizi su tutte le sue voci italiane ed io sono stata quella più apprezzata».
Voi doppiatori siete nell’aria. Vi si sente dappertutto: radio, tv, cinema… Ma non siete neppure personaggi troppo esposti. Come mi ritrovi in questo profilo artistico?
«Quando questo lavoro era più “nell’ombra” rispetto ad oggi aveva una qualità anche migliore. Oggi è un mestiere noto: tutti vogliono farlo, tanti lo fanno, tanti ti pubblicano, e tutto questo ha un po’ “snaturato” la professione e forse ha compromesso un po’ la qualità. Da un lato è così. Per l’altro verso, ci sono esigenze artistiche che vengono un po’ frustrate; e non parlo da doppiatrice, ma proprio da attrice. Tra l’altro penso che se dovessi prestarmi a ruoli di teatro, cinema o tv, poco interessanti, dopo i miei precedenti nel doppiaggio li soffrirei molto. E c’è da dire che non ho mai neppure cercato alternative del genere. Ho rifiutato anche un ruolo in una pubblicità proprio perché per me non aveva senso. Non doppio più neppure le attrici italiane.»
Quanto sei stata gratificata dall’ultimo premio?
«È innegabile che mi abbia fatto piacere, anche perché erano in lizza due colleghe bravissime. Io sono stata segnalata per quattro film. Di per sé, il premio non arricchisce tanto la carriera, ma la giuria era composta da addetti ai lavori, gente del mio mestiere. Tra le donne, ho colleghe molto in gamba che per il momento non ci sono arrivate probabilmente perché non hanno lavorato al film che in quella stagione poteva essere giudicato, ma hanno comunque delle capacità straordinarie: Barbara De Bortoli, Alessandra Korompay, Stella Musy, Francesca Fiorentini… Tantissime. Abbiamo un panorama eccellente».
Questa è una curiosità che abbiamo già espresso ad altri colleghi. Indirizzeresti tuo figlio verso questa professione?
«Ha iniziato a fare qualcosina. Vedremo. Ha un buonissimo orecchio: mi riconosce da una mezza battuta (è l’unico che mi riconosce sempre!), identifica in una voce che sente all’istante la voce di un personaggio che ha sentito chissà quando… Per adesso si è avviato a qualche turno, ma io preferisco che continui a studiare e poi decida cosa fare. Nella mia famiglia abbiamo lavorato seriamente in questo campo (il padre di Chiara è l’attore Pino Colizzi, nda): non gli lascerei una società da amministrare ma un lavoro, un lavoro artigianale da gestire, in base a quelle che saranno le sue preferenze e le sue capacità. Del resto il nostro panorama spesso non consente di fare granché neppure dopo una laurea. E poi ci sono suoi coetanei che potrei già definire miei colleghi e che lavorano a pieno regime. Io non ho iniziato da bambina, per cui non penso sia indispensabile. Oltretutto far lavorare i figli è un grande impegno sia per loro che per noi. Preferisco che viva la sua infanzia, intanto…».
Il tuo rapporto con la musica? (Molti dei tuoi colleghi hanno un rapporto intenso col “sonoro” a tutto campo e con la musica in particolare).
«Forse faccio eccezione. Sono intonata ma non molto di più, non ho lo strumento educato. Se un film lo richiede, ci mandano da un maestro negli studi di musica e riesco abbastanza, ma in effetti sì… ho molti colleghi e colleghe che cantano benissimo e suonano. Io penso che un lavoro artistico ti dia lo slancio per altre arti, più in generale: a me ad esempio piace dipingere. Noi abbiamo un lavoro di valore artistico penalizzato un po’ dai ritmi che dobbiamo tenere, simili forse a quelli di un impiegato, ma che a volte ci portano a esprimere l’inespresso in altri campi… »

(da InScena Magazine settembre 2009)

Rodolfo Bianchi... che "ha scelto la voce".


(A questo punto avevo creato una rubrica ad hoc sul mensile Inscena Magazine, distribuito in edicola come inserto della Gazzetta del Sud e poi in freepress/pdf su un portale online. La rubrica alternava schede e saggi su alcuni telefilm statunistensi a interviste coi loro maggiori doppiatori).

Questo è il pezzo dedicato a Rodolfo Bianchi.


Rodolfo Bianchi è un fuoriclasse degli adattamenti italiani: attore-doppiatore e direttore di doppiaggio, è la “parte italiana” di Chuck Norris, Gerard Depardieu, Gabriel Byrne.
Ha una solida esperienza teatrale e lo abbiamo visto recitare anche in alcune fiction italiane.
Una delle voci più note della sua generazione, ma, altrettanto, un fedelissimo sostenitore della magia di qualunque opera per come essa nasce: con la necessità di non tradirne mai la fibra e le intenzioni.


Nel doppiaggio, lei ha visto nascere le serie tv americane. Love Boat, Dallas… fino a Lost. In cosa è cambiato il modo di “adattare” le serie tv e i film?
«Diciamo che forse oggi si è più attenti all’originale, proprio perché è cresciuta moltissimo la fruibilità delle puntate in lingua. Per cui tradire o edulcorare il prodotto viene più difficile. Ma la qualità (la fedeltà al testo e all’interpretazione) è legata alla singola persona e alla somma dei lavori: sta a chi adatta, a chi doppia… Non è cambiato molto in questo».
La Warner Bros sta accennando una discreta campagna sulla “squisitezza” dei film in originale. Che succederà al doppiaggio fra cinquant’anni?
«Non lo so, intanto io non lo farò più per dati anagrafici. (ride, nda) Per quanto possa esser fatto benissimo il doppiaggio, l’originale è sempre meglio. Ma io non credo che possa sparire. A livello televisivo, i sottotitoli sono molto difficili da seguire e qualcosa “scappa” sempre; e ci sarà ancora tanta gente che non conosce (e non è detto che impari) l’inglese. In America è diverso: importano pochissimo rispetto a noi. E figuriamoci cosa succede coi film iraniani, cinesi, tailandesi…»
Le ho sentito dire in un’altra sede che “la forza di un personaggio si capisce subito, in qualsiasi lingua”. Quali sono stati i suoi personaggi più forti?
«Il cattivo tenente di Abel Ferrrara. Sicuramente Hitler ne La Caduta. Peter Mullan in My name is Joe. Ma sono talmente tanti quelli che ti colpiscono mentre li fai… Invece tra quelli che ho diretto, penso a tutti i personaggi de L’Odio, City of God, The Departed, pieni di spessore e profondità: lì lo capisci anche mentre li dirigi e non doppi soltanto».
Serie italiane e serie straniere. Lei ha recitato in prodotti italiani, anche… Quali sono le differenze che saltano all’occhio?
«Lo devo proprio dire? (sorride, nda) Noi abbiamo uno stile che è ben diverso dal ritmo americano: siamo più lenti, più descrittivi… I mezzi sono diversi, a volte. Le storie. A volte anche gli attori».
Il doppiatore affermato è un personaggio semi-pubblico. Situazione che ha dei pro e dei contro…
«Non so. Fa piacere avere i riconoscimenti in un lavoro che dà tante responsabilità. Ma forse l’attore troppo noto rischia di prevaricare “l’attore che c’è sotto”, quello straniero. Molto sta a chi dirige quell’attore, in casi del genere, perché è una condizione che può togliere un po’ di magia al personaggio e al film…»
Qualche serie però ha avuto risonanza mediatica anche per il doppiaggio…
«Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica un giudizio molto positivo sul doppiaggio di In Treatment. Non ho il testo con me, ma più o meno ne ha scritto che, se certi attori italiani recitassero come i doppiatori di questa serie, allora avremmo prodotti di qualità»

Ci sono altri telefilm all’attivo, per lei?
«Facevo Alias. Quest’anno arriverà l’ultima stagione di Lost (penso sia l’ultima). Ho fatto una serie molto bella e molto divertente: Shark (i cui doppiavo James Wood): ne abbiamo fatto due stagioni. Altre serie no; non perché sia spocchioso ma preferisco dedicarmi ai telefilm in casi eccezionali, quando ci sono grandi attori e quando sono progetti molto particolari».
La decade(nza) dal 2000 al 2010 è nostro “tema del mese”. Cosa le viene in mente, riguardo al cinema e alla tv?
«Si può rilevare questo. Si è persa un po’ di attenzione alla qualità. Si scade più facilmente nella volgarità in alcuni prodotti, la qualità artistica è penalizzata rispetto a prima… La regola del commercio, della fruibilità “l’indice di ascolto”… Il signor Indice d’Ascolto che vorremmo conoscere per chiedergli come mai segue alcune cose. Non so, a volte capitano dei periodi in cui accendi il televisore e trovi 2-3 reality contemporaneamente…»
Mai capitate persone di questa provenienza in sala doppiaggio?
«A me personalmente mai. E non li penalizzerei se ci fosse qualità, certo. Ma la tecnica, il talento interpretativo, la respirazione, una dizione perfetta: sono tutti strumenti da attore. E poi l’espressività al microfono, i limiti di questa espressività… Noi non ci aiutiamo coi movimenti né con una bella presenza. Occorrono basi molto forti perché dobbiamo trasmettere tutte le sensazioni possibili solo attraverso il suono. Forse c’è una richiesta un po’ esagerata per questo mestiere. Io penso che questo sia uno dei settori più difficili dello spettacolo».
Se non avesse fatto il doppiatore cos’avrebbe fatto?
«Bella domanda. Forse… il giornalista. Ma solo se il mestiere dell’attore non fosse esistito».


(da InScena Magazine, dicembre 2009)