Bio

martedì 21 settembre 2010

Disney: Il futuro ha un cuor antico


Sono trascorsi proprio vent’anni dal ventottesimo “classico” Disney: l’acclamatissimo lungometraggio d’animazione La Sirenetta.Molti di noi ricorderanno come questo cartone animato avesse spinto sotto i riflettori tutta la squadra di sceneggiatori, animatori, musicisti e attori che aveva dato alla luce questa esperienza di svolta. È oggi reperibile nella edizione in dvd de La Sirenetta un lungo “making of”, ossia una sezione nella quale si spiegano tutti i retroscena della bella, americanissima, Ariel. Ma non sfugga che, dietro la curiosa nomenclatura dei personaggi (il nome della Sirenetta stessa; il nome del fidato galoppino del Re Tritone, il granchio Sebastian) c'è l'influsso de “La Tempesta”, l’ultimo capolavoro di William Shakespeare: “Ariel” in particolare era qui il nome di uno spirito dell’aria che impregnava l’ambiente del suo canto e della sua musica. (Tra l’altro, nella storia originale di Andersen, la Sirenetta diventava proprio una “figlia dell’aria”).

Shakespeare è una miniera inesauribile per lo staff della Disney, che nel 1995, come trentatreesimo esempio della collana dei classici, ha proposto una edizione molto speciale dell’Amleto: “Il Re Leone”. Un saggio d’animazione che ha iniziato a sfruttare le prime tecniche digitali proprio nel famigerato “assalto degli gnu”, e che ha adattato la tragedia di Shakespeare a una giungla colorata ed esilarante, riuscendo anche ad insegnare ai più giovani l’ingranaggio di un vero colpo di stato: alla sua testa, un personaggio dall’eloquio ammaliante che si rivolge ad una massa sfiancata dalla fame e illetterata (le iene).

A dimostrare che l’occhio adulto ritrova in questi vent’anni di Disney degli ingredienti più a sua misura che a quella dei bambini, sono ancora “La Bella e la Bestia” (1991), “Pocahontas” (uno dei primi classici nei quali i personaggi disegnati avevano rigorosa somiglianza con gli attori che in America si trovavano a doppiarli: qui c’era addirittura Mel Gibson), “Il gobbo di Notre Dame” (1996), “Mulan” (1998), “Tarzan”, 1999: gioielli nei quali spaziano, tra l’altro, colonne sonore dense di sottotesti culturali, spesso volti alla sublimazione del “diverso”.

A Natale 2009, la stagione di Disney fa ambo: il campione d’incassi in 3D “A Christmas Carol” – affidato in inglese alla poliedria di Jim Carrey ma che non rientra, per sua costituzione, nei classici – e il 2D in animazione tradizionale “La Principessa e il ranocchio”, rilettura particolare della fiaba “Il Principe ranocchio”, subito collegata all’ “era Obama” per l’etnia della protagonista.

Il prossimo anno scopriremo al cinema un esperimento intermedio tra la grafica in 2 e in 3D. Si tratterà di Rapunzel (Raperonzolo), nel quale la Disney cercherà di portare sulla scena gli effetti della pittura ad olio, per non scontentare chi è convinto che in fondo “il futuro ha un cuor antico”. Le faccette impertinenti, un piccolo animale come mascotte della principessa, e la regia di Nathan Greno e Byron Howard sono le uniche anticipazioni del progetto che in Italia vedrà la luce il prossimo dicembre.

La trepidante attesa ci obbligherà ancora per un annetto, quindi, ma nel frattempo avremo tutto il tempo per scoprire almeno una seconda vita in altre quarantanove opere che hanno raccontato tradizione ed evoluzione della società, e che continueranno ad accompagnare un numero inestimabile di generazioni. Da non perdere, perciò, le “edizioni speciali” distribuite sul mercato.

Simonetta Caminiti, Ghigliottina.it, gennaio 2010.

giovedì 16 settembre 2010

La Siremonetta...


Manuel Colombo - fotografo eccellente - ha realizzato due sogni sopiti della mia infanzia in un colpo solo.
Mi ha dato la coda di una sirena... E una scollatura di tutto rispetto.

Per il resto, sono sempre io.

martedì 14 settembre 2010

LA CIMINIERA - cronaca


Trafelata, marcia di sudore e piena di valigie: il mio trolley pesa un quintale, dannazione a quando ho deciso di non fidarmi di lui, lui che mi aspetta a Bologna, e ho infilato in quel trolley anche il mio portatile di piombo.
E dannazione alla calura di colla che si respira oggi alla stazione di Napoli.
Corro verso il Frecciarossa al binario diciannove. Posso farcela a salire presto e sedermi in pace, affannando, se non altro, con le gambe a riposo e la bottiglia d’acqua ancora freschina. Potrei farcela, ma, mentre sto salendo sul treno, un ragazzino mi spintona.
Non è un accidente momentaneo: lo fa almeno un paio di volte, e sua madre sembra non accorgersi che sta sgomitando in modo tanto maleducato fra i bagagli di questa giovane donna mingherlina, evidentemente in difficoltà. Gli dice solo: “Sì sì, vai a cercare i posti”. Mi volto per curiosare nelle fisionomie di questa famigliola: il ragazzino avrà dieci anni, è grasso e ha due occhi scuri incredibilmente rotondi. Sua madre era quella lì, quella che poco prima, nel tragitto verso il treno, avevo ritenuto una strana gitana di provenienza slava, e obesa.
Invece no. Ha l’accento del Nord, è italianissima, è… una persona qualsiasi sul treno. Me ne accorgo quando – con fastidio – vedo lei e i due figli sbucare dall’altra entrata della mia stessa carrozza: erano sgusciati, dopo avermi assaltata, perché si erano accorti che “dall’altra parte facciamo prima”.
Il mio posto è il sessantadue; quello del ragazzino grasso sarà il sessantaquattro.
Gli siede accanto il fratellino, sei, sette anni: molto somigliante a lui, ma ancora pesoforma. Sono piuttosto bruni. La madre ha i capelli castano-chiari, resi opachi dallo sporco che forse spera di occultare un po’ con la coda di cavallo. Ha gli occhi azzurrognoli, e un viso che mi ricorda quello di Drew Barrimore, ma gonfio come un pallone. Sì, in piedi è tra le donne più grosse che abbia mai visto, ma, poverina, “deve avere un problema di salute, e di quelli seri”.

I bimbetti sono indisciplinati. Al più piccolo devo dire subito: “Tesoro, non mettere i piedini sulla mia borsa, ti prego”.
Litigano sonoramente con la madre per tutto il tempo. Mi deconcentrano: sto cercando di mandare giù in libro in un inglese troppo ricercato per la fine di agosto.
Ed io non ho un buon rapporto coi bimbi grassi: lo fui, e questo sancì la fine del mio folle amore per me stessa, quando cominciai a desiderare di essere amata da tutti. Così, più sono disturbata da quei ragazzini, più odio il primogenito e quella selvaggia di sua madre.
Cerco pure lo sguardo complice della mia dirimpettaia: una graziosa, raffinata ragazza con la borsa di Louis Vuitton contraffatta sulle gambe. Ma è algida e non mi ricambia.
L’acme del mio sdegno, in questo pomeriggio di impazienza focosa, arriva quando il bimbo ciccione mi versa dell’acqua addosso. “Eccheccazzo!” vorrei sbottare. Mi limito a un severo: “Nooooo!”, che fa intervenire la sua mamma. E la zia. E l’altra zia. Sì, perché a bordo sono salite pure due prozie di questi impossibili pargoletti.
Ma il ciccione tace mortificato. Vorrebbe chiedermi scusa; è troppo orgoglioso per farlo. Gli basteranno – è evidente – i cazziatoni imbastiti di turpiloquio con cui la mammona e le prozie, col loro accento meticcio, lo stanno annaffiando già da un po’.
Le mie pillole di “S.O.S. Tata”, che tanto hanno messo in discussione l’educazione che io stessa ricevetti nell’infanzia, mi basterebbero a placare le acque. Mi trasformo per pochi secondi di fantasia (solo nella mia mente) in Tata Francesca. Sì: scuoterei la testa dolcemente, e direi a quella madre: “Non si pronunciano parolacce davanti ai ragazzi, signora.” E: “Niente più cibo spazzatura”. Ma su quest’ultimo punto, la mamma grassona sembra ben informata: ha già insultato il primogenito un paio di volte, per la sua smania di tenere “la bocca in movimento”. E le vocali chiuse mi hanno ricordato la Tata Francesca. Peccato che in effetti l’altalena di quiete e concitazione, nei toni della grassona, sia troppo vertiginosa. Poveri ragazzi e basta, mi dico.
Le botte non tardano. In effetti, le battute del mio libro mi sottraggono a una parte cruciale dello show: devono aver fatto qualcosa di brutto, i bimbi, perché stanno volando ceffoni troppo schioccanti. Il più grande si sforza di piangere per impietosire mamma e zie. La replica è corale: “Non fare la vittima!” o addirittura: “E smettila con le sceneggiate napoletane!”.
Il pensiero di quel poveruomo che deve aver contribuito a mettere al mondo questi figlioli non mi sfiora nemmeno: l’uomo da cui avranno ereditato gli occhi neri, e speriamo qualcosa in più, ché peggio della madre non può essere.

Leggo, sì, ma l’orecchio è sempre teso verso questo teatro ambulante. Confesso d’averci preso gusto da un pezzo. Quindi… niente più astio verso i ragazzi.
Il culmine arriva quando mi alzo per andare in bagno. La “signora” è adesso lì davanti, davanti a una porta chiusa, ma che reca il “rettangolino verde”: il bagno dovrebbe essere libero. Faccio per entrare. Lei mi blocca: “No, quello è occupato”, accennando un sorriso. Però io ho fatto in tempo a vedere il secondogenito, lì dentro. Seduto a terra con gli occhioni rossi. Mamma mia. Lo ha messo in castigo in un cesso del treno, seduto sull’urina di chissà chi. Fatemi intervenire, vi prego.
“Signora, le chiedo scusa… Ma il bambino è seduto a terra”.
“Alzati!” gli strilla lei, spalancando la porta e afferrandolo per un braccio. “Alzati e vieni qui!”.
Filo nell’altro bagno, che era libero e non me n’ero neppure accorta. Mi chiudo dentro sperando in quattro secondi di respiro.
Da dietro la porta, sento piangere lei.
“Io non ce la faccio più, non ce la faccio più!... Io mi ammazzo, mi ammazzo!!! Siete già senza papà! Volete restare anche senza mamma?”
Il respiro, adesso, mi viene meno.
E qualcosa mi dice, nella stretta inaspettata che ho al cuore, che la signora volesse farsi sentire. Che stesse gridando al treno – e certamente a me – : “Vi chiedo scusa… Non sono una carogna né un’incapace. Sono distrutta.”

Non la vedo più per un po’. Chissà dov’è andata a riparare.
Io faccio per sedermi, e lo show lo conduce la prozia, con quelle scarpe da ginnastica rosa, la fascia in testa, l’italiano sempre più improbabile, e mille uscite diverse per tenere buoni i piccoli. “Ma dov’è andata tua madre?” domanda al primogenito, con cui è arrabbiatissima “Nella carrozza undici”, risponde lui.
E comincia un’ondata di provocazioni: questo ragazzino è più avvelenato di lei.
I fratellini non hanno fatto che litigare e picchiarsi per tutto il tempo, ma le rispostacce che il maggiore rivolge alla zia divertono il più piccolo, lo fanno ridere a crepapelle: nella ribellione contro di lei, sono uniti e gaudenti.
Poco dopo torna a sedersi sua madre.
I suoi occhi sembrano fatti d'acqua, di un celeste vuoto e malinconico, e fluttuano tra le linee del viso tondo. Sono persi. E un filo vermiglio, di pianto, li attraversa fermo.
Al dito – osservo – ha la fede d’oro giallo bene in vista: un solitario piccolo piccolo, con un brillantino di memoria.
Quei chiassosi ammassi di lardo mi paiono adesso ciminiere di dolore.
Il baccano che fanno ha la voce della morte, o forse di una vita che vorrebbe ricominciare, ma proprio non sa da dove né come. E mi chiedo da quanto tempo.
La carnalità unta di quella femmina, che prima mi era sembrata una forza bruta, la pelle di una balena, è adesso qualcosa di immensamente tenero, con la voce di una sirena del Nord.

La ragazza dirimpetto a me scende a Firenze. Non saluta me, ruvida malgiudicante con quel libro aperto. Schiude un sorriso verso quella famiglia e se ne va. Non può aver sentito le cose che ho sentito io, ma sembra aver perdonato tutto quanto, sembra averlo digerito come un’inoffensiva nota di colore.
Quando arriva il mio turno, la risposta della signora è appena più fredda: non mi guarda negli occhi, fa una smorfia distante.

“Arrivederci. Buon viaggio”.

Simonetta Caminiti, 26.08.2010, Bologna.